Tutto nero.
Si sente solo il fragore ritmico e incessante delle onde, lento, come il canto di una madre che culla il suo bambino fra le braccia.
Continua, mi scioglie, porta il pensiero a viaggiare, vela sulle onde dei ricordi e del desiderio.
Non voglio aprire gli occhi. Voglio restare qui, in questa dimensione dove tutto è inafferrabile, tutto mi scivola e anche io sono materia impalpabile. Qui dove nulla ha bisogno di spiegazioni e nulla avrà mai la forza o il desiderio di fermare quell’unico suono perpetuo, ipnotico, acqua che scorre per chilometri senza emettere un suono, per poi dissolversi sulla riva e tornare indietro.
Lasciatemi qui, dove la solitudine è solo un mezzo per percepire la sinergia del tutto. Dove basta guardare negli occhi una sirena, vederla sorridere, senza distogliere lo sguardo finché, imbarazzata, inizia a piangere. Lacrime che rigano le sue guance e sfiorano quel sorriso, pareva immutato, ma adesso trema.
Sulla scogliera, vige un faro che è spento da secoli, sia di notte che di giorno. L’ultimo consumato vessillo di una terra dimenticata dal mondo.
All’interno del faro, una figura si sporge senza paura verso quel mare infinito, ascoltando quel rumore, osservando il colore dell’acqua che oggi è più scuro del solito. La mano scivola senza forza lungo il muro ruvido e la vertigine di un momento si trasforma in un tuffo silente e fatale.
Seduto sulla sabbia, sento gli occhi gonfiarsi di malinconia e vedo una goccia cadere a terra. Poi un’altra e un’altra ancora, comincia a piovere senza che io abbia potuto scrollarmi di dosso una singola ombra del mio malessere. Non ancora.
Corro al riparo verso la foresta oltre la spiaggia, a piedi nudi su rami spinati la vegetazione cascata al suolo, supero migliaia di alberi; come fa a crescere tutto questo su un terreno di sabbia?
Non trovo riparo. Mi appoggio alla pianta dalle foglie enormi, osservandole qualche istante decido che saranno il mio riparo se solo riuscirò a strapparle.
Devo arrampicarmi, ma non faccio altro che scivolare ogni volta dalla corteccia.
I lampi illuminano tutto per un istante, trovo la forza di riprovare. Arrivo finalmente alle foglie, allungo il braccio fino a toccare quella più vicina e il tempo rallenta, vedo il lampo ramificarsi fra le nuvole e le gocce scendere a mezz’aria quasi senza peso, il ramo della foglia si attorciglia attorno al braccio, diventa una corda verde scura che si alza verso di me assumendo il volto di un serpente. Le pupille ellittiche mi attraversano lo sguardo, le nuvole plumbee dietro questa creatura sembrano lo sfondo apocalittico di una leggenda mitologica, il rumore è cessato e il tempo si è fermato.
Solo il serpente è escluso da questa immobilità, si avvicina lentamente e arrivato a pochi centimetri dal mio viso mi chiede: “Perché stai fuggendo?”.